Uguaglianza e Campanilismo: il Paradosso della Società Contemporanea
Viviamo in un’epoca che celebra l’uguaglianza, il rispetto per le diversità culturali, etniche, sessuali e religiose.
Le leggi si moltiplicano per tutelare i diritti delle minoranze, per includere, per correggere secoli di ingiustizie e discriminazioni.
Le parole “inclusività” e “diversità” sono ormai onnipresenti nel linguaggio politico, accademico e persino pubblicitario.
Eppure, accanto a questi progressi, sopravvivono — e talvolta si rafforzano — atteggiamenti antichi, basati sul campanilismo, sul tribalismo, sul senso di appartenenza esclusiva a una nazione, a una città, a una squadra.
La contraddizione è lampante: mentre promuoviamo l’unità della specie umana, continuiamo a dividerci lungo linee immaginarie — Modena contro Bologna, Italia contro Francia, Nord contro Sud.
Si tifa per una squadra della propria città con fervore quasi religioso, anche quando nessuno dei giocatori rappresenta davvero quella città. E quando un atleta vince una competizione internazionale, il paese d’origine si affretta a rivendicarlo come "uno dei nostri", anche se la sua biografia racconta una storia fatta di migrazione, doppie identità, radici ibride.
Questa tensione tra universalismo e identità locale non è nuova.
L’essere umano ha sempre avuto bisogno di sentirsi parte di un gruppo, ma oggi questo bisogno si scontra con un mondo che chiede apertura, comprensione globale, superamento delle barriere.
Si può legiferare sull’uguaglianza, ma non si può imporre per decreto un sentimento autentico di fratellanza.
Le norme regolano i comportamenti, ma non trasformano automaticamente le coscienze. E così, la società moderna rischia di vivere in una forma di schizofrenia culturale: inclusiva nei principi, ma ancora profondamente tribale nei riflessi emotivi.
Il tifo sportivo è emblema di questa dinamica.
Le tifoserie diventano micro-nazioni che si scontrano simbolicamente, ma talvolta anche fisicamente.
La squadra diventa totem, rifugio identitario, surrogato di conflitti più profondi. Eppure, spesso non c'è nulla di “locale” in una squadra moderna: i giocatori sono internazionali, gli allenatori itineranti, le proprietà straniere.
Ci si riconosce in un simbolo che non ci rappresenta davvero, ma che soddisfa il bisogno ancestrale di appartenenza.
Lo stesso vale per il patriottismo improvviso che emerge durante una vittoria sportiva.
L’atleta che ieri era “diverso”, “straniero”, “naturalizzato” diventa improvvisamente “figlio della patria” quando vince. È un riconoscimento condizionato al successo, che rivela quanto ancora l’inclusione sia fragile, subordinata alla prestazione, alla convenienza.
In definitiva, la contraddizione tra l’universalismo dei principi e il tribalismo delle pratiche quotidiane ci racconta molto della nostra natura.
L’uomo è un essere complesso: capace di pensiero elevato, ma anche preda di meccanismi profondamente emotivi.
Non si tratta di negare le appartenenze locali, ma di imparare a viverle senza trasformarle in strumenti di esclusione.
La sfida è educare alla complessità, allenare lo sguardo a cogliere l’umanità nell’altro, anche quando non ci somiglia, anche quando non condivide il nostro dialetto, la nostra bandiera, la nostra storia.
Solo così, forse, potremo superare l’ipocrisia di una società che predica uguaglianza mentre coltiva separazioni. E scoprire che si può essere modenesi, italiani, europei e, al tempo stesso, profondamente umani.