Riflessione sull’ipocrisia ai funerali

È curioso come, di fronte alla morte, le persone si vestano di nero, indossino maschere di cordoglio e si radunino attorno a una bara, quando fino al giorno prima di quel funerale non si erano nemmeno ricordati dell’esistenza di chi oggi piangono. Ci si ritrova tutti lì, stretti tra preghiere e frasi di circostanza, mentre nell’aria aleggia un senso di ipocrisia sottile ma palpabile.

Ai funerali spesso si assiste a un teatrino: vecchi amici e parenti che non si vedevano da anni si stringono la mano, si scambiano sorrisi velati di malinconia, e nel mezzo di un rosario o di un elogio funebre sussurrano battute leggere per aggiornarsi sulla vita reciproca. E così, quel momento che dovrebbe essere sacro, intimo e di reale riflessione su chi non c’è più, diventa l’occasione per organizzare improbabili rimpatriate o parlare di lavoro, di vacanze, di progetti futuri. Il defunto? Si nomina come si nomina un vecchio compagno di scuola: “Era bravo… era buono… però era strano… non lo sentivo da tempo… peccato”.

Eppure, proprio lì si manifesta l’essenza dell’ipocrisia: si piange la morte di chi, in vita, era stato spesso dimenticato. Si recitano frasi di conforto, ma la verità è che pochi si erano ricordati di quella persona prima che smettesse di respirare. Forse è questo il vero dramma: l’essere celebrati da morti quando da vivi si è stati ignorati. E il funerale diventa un palcoscenico dove l’affetto viene messo in scena per quietare le coscienze di chi, troppo preso dalla propria vita, non ha avuto tempo per il semplice gesto di una visita, di una chiamata, di un pensiero.

Alla fine, l’ipocrisia ai funerali ci parla più dei vivi che dei morti. Ci mostra quanto sia facile dire “Mi mancherai” a chi non abbiamo cercato per anni. E ci insegna che, forse, la vera forma di rispetto verso chi amiamo è esserci quando respira ancora, piuttosto che piangerlo quando ormai non sente più nulla.