Noi e gli Altri: Un Paradosso Moderno

Viviamo in tempi in cui tutti parlano di diritti, di uguaglianza, di rispetto per le differenze.

A scuola ci insegnano che ogni cultura ha valore, che ogni orientamento va rispettato, che nessuno deve essere discriminato.

Eppure, basta guardarsi attorno per capire che qualcosa non torna.

Perché mentre da una parte ci riempiamo la bocca di parole come inclusione, dall’altra ci dividiamo ancora per cose che non hanno più senso. Io sono di Modena, tu sei di Bologna.

Io sono italiano, tu sei francese. E allora? Che cosa dice questo di noi, davvero?

Lo vediamo ogni settimana negli stadi, dove tifosi si scannano per squadre che rappresentano città in cui, spesso, nessuno dei giocatori è nato.

È un teatro, uno sfogo, ma anche uno specchio.

Perché ci aggrappiamo a simboli che non ci rappresentano davvero, solo per avere qualcosa in cui credere, qualcuno contro cui schierarci.

E poi c’è il patriottismo dell’ultima ora.

Quando un atleta vince, tutti a dire "è italiano!", anche se ha la pelle scura, anche se è cresciuto altrove.

Ma se perde o se sbaglia, improvvisamente non lo è più.

Siamo pronti a riconoscere solo chi ci fa fare bella figura. Ma l’inclusione vera non è così: non si basa sul risultato, si basa sul rispetto.

Viviamo in contraddizione.

Diciamo di voler unire, ma ci dividiamo.

Sogniamo l’umanità come una sola famiglia, ma poi torniamo sempre al nostro campanile, al nostro dialetto, al nostro "noi".

È umano, sì. Ma non è inevitabile.

Forse la strada sta nel trovare un nuovo modo di appartenere: non uno che esclude, ma uno che connette.

Si può amare la propria città senza odiare quella vicina.

Si può essere italiani senza pensarsi migliori. Si può essere parte senza perdere l’intero.

Perché alla fine, sotto tutte le bandiere, le lingue, i dialetti, restiamo quello che siamo: esseri umani. E da lì bisogna ripartire.