L’illusione dello sport professionistico in Italia: tra opportunismo commerciale e logiche di potere
In Italia, lo sport professionistico è per molti versi una contraddizione. Da un lato, si presenta come un veicolo di valore e identità nazionale, capace di promuovere l’eccellenza e di rappresentare il paese sui palcoscenici internazionali. Dall’altro lato, è intrinsecamente legato a logiche di mercato e a una struttura che, più che sostenere gli atleti, li sfrutta e li costringe a scelte che poco hanno a che fare con la passione per il proprio sport.
Una delle principali problematiche del sistema sportivo italiano è la sua dipendenza dalle sponsorizzazioni.
Le grandi aziende e i marchi multinazionali dominano lo sport, creando un circolo vizioso dove l’atleta è costretto a essere prima di tutto un prodotto da vendere.
Le competizioni sono organizzate non per promuovere il benessere fisico o i valori sportivi, ma per attirare l’attenzione dei consumatori e dei media, con l’obiettivo di ottenere guadagni sempre maggiori.
Questo modello capitalista, che svuota lo sport del suo significato più profondo, ha creato un ambiente dove la meritocrazia non sempre trova spazio, soppiantata da interessi economici che dettano le regole del gioco.
Le alternative “militari”: sportivi in divisa
In assenza di un sistema che permetta agli atleti di vivere del proprio sport, molti giovani talenti sono costretti a cercare un altro tipo di supporto economico.
E qui entra in gioco una peculiarità del sistema italiano: la possibilità di entrare a far parte dei corpi militari, della Polizia, Carabinieri o della Guardia di Finanza, dove è possibile ricevere una retribuzione stabile mentre si prosegue l’attività sportiva.
La carriera militare o paramilitare offre una sorta di "paracadute" per gli atleti, che in cambio si trovano a svolgere ruoli spesso lontani dalla loro passione, ma che garantiscono un reddito mensile e un’assicurazione sociale.
Questa soluzione non è però priva di contraddizioni.
Infatti, da un lato, questi corpi forniscono una sicurezza economica e una certa visibilità agli atleti, ma dall’altro, la logica che sta alla base di queste pratiche è tutt’altro che sana.
Non si tratta di un sistema che promuove lo sport come un valore autonomo e separato dalle esigenze istituzionali o politiche, ma di un meccanismo che integra lo sport in un sistema di potere, dove l’atleta diventa funzionale a un apparato che ha ben altri scopi rispetto al puro sviluppo sportivo.
Il cittadino sostiene lo sport senza che lo sport gli appartenga
Un altro aspetto problematico di questo sistema è che, di fatto, è il cittadino a finanziare lo sport attraverso le tasse, senza che però lo sport risponda a un interesse diretto della collettività.
Le forze armate e di polizia, pur svolgendo attività sportiva, non sono un investimento mirato a favore del benessere pubblico o della promozione dei valori sportivi come strumento di crescita individuale e collettiva.
Invece, gli atleti che fanno parte di questi corpi sembrano essere più una risorsa "utilizzata" che un patrimonio da valorizzare in modo autonomo e indipendente.
Le tasse versate dai cittadini dovrebbero essere utilizzate per costruire una rete di sostegno che permetta a tutti gli sportivi di praticare la loro disciplina, indipendentemente dal loro status economico o dalle esigenze politiche.
E invece, ci troviamo di fronte a una situazione in cui i fondi pubblici non sono diretti allo sviluppo sportivo in senso ampio, ma piuttosto a un meccanismo che alimenta una piccola élite di atleti legati a sistemi di potere o a logiche di mercato che nulla hanno a che fare con lo sport in sé.
Inoltre; avete mai pensato che lo sponsor non è un finanziamento gratis?
Un’azienda che decide di sponsorizzare lo sport lo fa per un ritorno economico dovuto non solo alla pubblicità che ne deriva, ma anche da uno sgravio fiscale in termine di tasse perché la spesa per la sponsorizzazione è una spesa da decurtare dal reddito.
L’azienda che dice di sponsorizzare lo fa secondo un suo criterio di impresa e marketing, non di meritocrazia sportiva.
Un'alternativa: un sistema sportivo disconnesso dal mercato e dalla politica
In un contesto come quello italiano, dove il capitalismo e le strutture di potere dominano gran parte delle attività, sarebbe auspicabile un modello di sport che si distacchi da queste logiche.
Un sistema sportivo che, anziché cercare il ritorno economico o il prestigio politico, metta al centro la formazione, la crescita e la promozione dei valori sportivi autentici: la sana competizione, il rispetto delle regole, il fair play, il benessere fisico e mentale.
Una riforma radicale potrebbe prevedere, ad esempio, l’introduzione di un sistema pubblico che fornisca borse di studio e sostegni economici a tutti gli atleti meritevoli, senza che siano costretti a entrare in corpi paramilitari o a diventare schiavi di logiche mercantili.
In questo modo, lo sport potrebbe tornare a essere uno strumento di crescita personale e collettiva, senza le interferenze delle dinamiche commerciali e politiche che oggi ne determinano la direzione.
L'idea sarebbe quella di reintegrare lo sport nel suo ruolo educativo, mettendo in campo politiche che favoriscano la pratica sportiva in tutte le sue forme, a partire dalle scuole, fino alle categorie professionistiche.
Un sistema di incentivi che premi non solo la prestazione sportiva, ma anche l’inclusività e l’accesso per tutti.
Un sistema che ponga l'accento sull'importanza di un movimento sano, senza farne strumento di sfruttamento economico o di potere.
lo sport deve essere patrimonio collettivo
In definitiva, l’Italia ha bisogno di un cambio di rotta. Il sistema sportivo non può continuare a essere subordinato agli interessi capitalistici o a una logica di spartizione politica che non ha nulla a che fare con il concetto di sport come valore universale.
È necessario creare un ambiente che liberi gli atleti dalle catene delle sponsorizzazioni, che smetta di usare il pubblico per finanziare apparati militari o forze dell’ordine, e che ponga lo sport al centro della crescita sociale, culturale ed educativa.
Solo in questo modo lo sport potrà tornare ad essere ciò che dovrebbe essere: un diritto per tutti, un'opportunità di crescita individuale e collettiva, e non un mercato o un mezzo di potere.