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Riflessione – La montagna e la natura come rifugio tradito
La montagna, e più in generale la natura, è sempre stata un luogo di rifugio. Un rifugio silenzioso per chi ama camminare lontano dal caos, un luogo per ascoltare i suoni discreti del vento, delle acque e degli animali. È sempre stata, per molti, una possibilità di introspezione, di ritorno a se stessi e di immersione in un mondo che non chiede nulla se non rispetto.
Negli ultimi tempi, però, stiamo trasformando questi ambienti naturali in palcoscenici per feste, eventi e concerti. Sempre più artisti si interessano a organizzare live musicali in quota, come se la montagna fosse un grande teatro dove allestire scenografie suggestive, incuranti però della fragilità di quei luoghi. Musica ad alto volume, luci artificiali e centinaia di persone che calpestano contemporaneamente sentieri, prati e boschi. Rifugi e bivacchi che fino a ieri erano sinonimo di riposo e pace, oggi diventano simili a discoteche d’alta quota, con file di persone che non cercano più l’introspezione, ma l’esperienza da postare e condividere.
A questo si aggiungono comitive sempre più numerose, che affrontano i sentieri come fossero semplici passeggiate di gruppo, occupando ogni spazio con il loro vociare continuo. E poi i cani, spesso lasciati liberi senza guinzaglio. Non tanto spaventano la fauna, già messa in fuga dal chiasso umano, quanto diventano un rischio concreto di scontri tra loro – cani grandi con cani piccoli – o anche un pericolo per le persone, in particolare per i bambini che si trovano lungo i percorsi.
E che dire delle escursioni organizzate direttamente all’interno dei corsi d’acqua? Con la scusa di un’effimera avventura e delle piacevoli acque fresche, nemmeno il delicato ambiente dei torrenti di montagna si salva più. Frotte di persone si riversano nei ruscelli, calpestando alghe, muschi, microfauna, trasformando un habitat fragile in un parco giochi “a portata di chiunque” per un giorno, ma a caro prezzo per l’ecosistema.
Sembra quasi che la natura, in questi casi, diventi l’ennesimo sfondo coreografico. Non è più un ambiente che chiede di essere ascoltato, contemplato, protetto, ma una cornice insolita, scelta proprio perché “diversa” rispetto al contesto urbano. Eppure, così facendo, viene snaturata. La sua voce viene coperta dalla musica e dai rumori, i suoi tempi rallentati e armoniosi vengono soffocati dal ritmo incessante dell’intrattenimento umano.
Forse dovremmo fermarci a riflettere su cosa cerchiamo davvero quando saliamo in montagna. Se un palco per continuare a ballare o un sentiero per imparare a stare, finalmente, in silenzio.
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Riflessione sull’ipocrisia ai funerali
È curioso come, di fronte alla morte, le persone si vestano di nero, indossino maschere di cordoglio e si radunino attorno a una bara, quando fino al giorno prima di quel funerale non si erano nemmeno ricordati dell’esistenza di chi oggi piangono. Ci si ritrova tutti lì, stretti tra preghiere e frasi di circostanza, mentre nell’aria aleggia un senso di ipocrisia sottile ma palpabile.
Ai funerali spesso si assiste a un teatrino: vecchi amici e parenti che non si vedevano da anni si stringono la mano, si scambiano sorrisi velati di malinconia, e nel mezzo di un rosario o di un elogio funebre sussurrano battute leggere per aggiornarsi sulla vita reciproca. E così, quel momento che dovrebbe essere sacro, intimo e di reale riflessione su chi non c’è più, diventa l’occasione per organizzare improbabili rimpatriate o parlare di lavoro, di vacanze, di progetti futuri. Il defunto? Si nomina come si nomina un vecchio compagno di scuola: “Era bravo… era buono… però era strano… non lo sentivo da tempo… peccato”.
Eppure, proprio lì si manifesta l’essenza dell’ipocrisia: si piange la morte di chi, in vita, era stato spesso dimenticato. Si recitano frasi di conforto, ma la verità è che pochi si erano ricordati di quella persona prima che smettesse di respirare. Forse è questo il vero dramma: l’essere celebrati da morti quando da vivi si è stati ignorati. E il funerale diventa un palcoscenico dove l’affetto viene messo in scena per quietare le coscienze di chi, troppo preso dalla propria vita, non ha avuto tempo per il semplice gesto di una visita, di una chiamata, di un pensiero.
Alla fine, l’ipocrisia ai funerali ci parla più dei vivi che dei morti. Ci mostra quanto sia facile dire “Mi mancherai” a chi non abbiamo cercato per anni. E ci insegna che, forse, la vera forma di rispetto verso chi amiamo è esserci quando respira ancora, piuttosto che piangerlo quando ormai non sente più nulla.
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Il paradosso del lusso: tra desiderio e giustizia
Viviamo in un'epoca in cui il benessere sembra coincidere sempre più con l'accesso al superfluo.
Il lusso, l’essere serviti, il possedere oggetti rari o costosi, l’ostentazione, sono diventati per molti sinonimi di successo. Il messaggio è chiaro: “Se puoi permetterti più degli altri, allora vali di più.” Ma è davvero questa la misura del valore umano?
L’aspirazione al lusso non è solo una questione estetica o materiale: è la ricerca di un posto “al di sopra”, una posizione sociale che distingua. E così, mentre si parla di inclusione, equità e pace, le fondamenta del vivere comune vengono minate dal desiderio di emergere sugli altri.
Come può esserci eguaglianza se l’obiettivo diffuso è vivere meglio di qualcun altro?
C'è un'evidente contraddizione in questa corsa alla distinzione.
La vera giustizia sociale non può consistere nel permettere a chiunque di diventare ricco, ma nel garantire a ognuno una vita degna: con ciò che serve e nulla di più.
Questo non è un invito all’austerità punitiva, ma un’esortazione a riconoscere la bellezza della semplicità, il valore dell’essenziale, la dignità dell’onestà.
Essere felici non significa avere sempre di più, ma avere abbastanza.
L’ossessione per il lusso comporta necessariamente lo sfruttamento: delle risorse, del tempo altrui, delle persone meno fortunate.
Dietro a ogni privilegio non guadagnato con il merito, c’è spesso qualcun altro che lavora in silenzio, invisibile, perché quel lusso possa esistere.
Eppure, il bello autentico – quello che non invecchia – è spesso nascosto nelle cose semplici: in un gesto sincero, in una casa modesta ma piena di affetto, in un lavoro svolto con cura. È nella capacità di accontentarsi senza rinunciare alla qualità umana della vita. È qui che dovrebbe spostarsi il nostro ideale.
La vera rivoluzione culturale non è rendere tutti milionari, ma rendere normale l’idea che basti il giusto. E questo giusto non è poco: è cibo sano, casa, salute, istruzione, tempo libero, affetti, bellezza accessibile. È sentirsi parte di una comunità senza dover combattere per emergere a ogni costo.
Se vogliamo davvero parlare di eguaglianza, inclusione e pace tra i popoli, dobbiamo avere il coraggio di rivedere i nostri desideri.
Forse, solo allora, potremo cominciare a costruire un mondo che non abbia bisogno di servi, né di padroni.
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La Nuova Schiavitù: Quando lo Sponsor Diventa il Padrone
Viviamo in un’epoca in cui la libertà individuale viene esaltata come valore assoluto, eppure ogni giorno accettiamo, spesso senza rifletterci, di vivere sottoposti a una nuova forma di schiavitù.
Non parliamo di catene fisiche, ma di un giogo più sottile e socialmente accettato: quello dello sponsor.
In molti ambiti della nostra società — sport, intrattenimento, moda, social media — si è normalizzato il fatto che persone di talento, spesso giovani e brillanti, "si vendano" a un marchio.
Il problema non è la collaborazione in sé: promuovere un prodotto in cui si crede, sposare la filosofia di un'azienda, fare parte di un progetto condiviso può essere stimolante e legittimo.
Ma la realtà è ben diversa. La maggior parte delle sponsorizzazioni oggi non nasce da una scelta consapevole, bensì da una necessità economica o da un’illusione di successo, e si basa su un contratto implicito: "Tu mi dai la tua immagine, il tuo corpo, la tua voce, la tua visibilità — e io ti pago."
Lo sponsor diventa così il padrone invisibile.
Non si compra un'opinione, ma una presenza.
Non si sostiene un’idea, ma si acquista l’associazione automatica tra un volto e un marchio.
La persona sponsorizzata diventa vetrina, superficie utile, silhouette da riempire con un logo.
Il talento smette di parlare con voce propria e inizia a modulare il proprio linguaggio secondo i valori aziendali, che spesso non condivide, o che semplicemente non conosce.
È questa la parte più inquietante: non si tratta di una scelta morale, politica o estetica.
Si tratta di vendere senza credere, di sostenere senza sentire, di promuovere senza pensare.
E ciò che si perde in questo processo è l'autenticità.
L'artista, l'atleta, il professionista non sono più liberi di costruire un’identità che rifletta ciò che sono.
Diventano strumenti pubblicitari. E più aumentano il proprio valore sul mercato — follower, visibilità, engagement — più diventa forte la pressione a cedere a questo scambio.
La responsabilità non è solo degli "sponsorizzati", ma anche nostra, spettatori complici. Continuiamo a premiare la forma sopra la sostanza, il marchio sopra il messaggio.
Eppure dovremmo iniziare a chiederci: quanto vale la libertà di dire no?
Di non esporre il nostro volto accanto a qualcosa che non ci rappresenta?
Di non vendere il nostro corpo come spazio pubblicitario?
Riscoprire il valore dell’autenticità potrebbe essere il primo passo verso una ribellione silenziosa. Scegliere con chi lavorare, cosa rappresentare, per chi mettersi in gioco.
Non si tratta di demonizzare lo sponsor, ma di rinegoziare il rapporto: da sudditanza a collaborazione, da imposizione a scambio etico.
Forse la vera rivoluzione oggi non è dire sì a ogni offerta, ma avere il coraggio di rifiutare.
Perché la libertà, come la dignità, non ha prezzo. E non dovrebbe avere sponsor.
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Noi e gli Altri: Un Paradosso Moderno
Viviamo in tempi in cui tutti parlano di diritti, di uguaglianza, di rispetto per le differenze.
A scuola ci insegnano che ogni cultura ha valore, che ogni orientamento va rispettato, che nessuno deve essere discriminato.
Eppure, basta guardarsi attorno per capire che qualcosa non torna.
Perché mentre da una parte ci riempiamo la bocca di parole come inclusione, dall’altra ci dividiamo ancora per cose che non hanno più senso. Io sono di Modena, tu sei di Bologna.
Io sono italiano, tu sei francese. E allora? Che cosa dice questo di noi, davvero?
Lo vediamo ogni settimana negli stadi, dove tifosi si scannano per squadre che rappresentano città in cui, spesso, nessuno dei giocatori è nato.
È un teatro, uno sfogo, ma anche uno specchio.
Perché ci aggrappiamo a simboli che non ci rappresentano davvero, solo per avere qualcosa in cui credere, qualcuno contro cui schierarci.
E poi c’è il patriottismo dell’ultima ora.
Quando un atleta vince, tutti a dire "è italiano!", anche se ha la pelle scura, anche se è cresciuto altrove.
Ma se perde o se sbaglia, improvvisamente non lo è più.
Siamo pronti a riconoscere solo chi ci fa fare bella figura. Ma l’inclusione vera non è così: non si basa sul risultato, si basa sul rispetto.
Viviamo in contraddizione.
Diciamo di voler unire, ma ci dividiamo.
Sogniamo l’umanità come una sola famiglia, ma poi torniamo sempre al nostro campanile, al nostro dialetto, al nostro "noi".
È umano, sì. Ma non è inevitabile.
Forse la strada sta nel trovare un nuovo modo di appartenere: non uno che esclude, ma uno che connette.
Si può amare la propria città senza odiare quella vicina.
Si può essere italiani senza pensarsi migliori. Si può essere parte senza perdere l’intero.
Perché alla fine, sotto tutte le bandiere, le lingue, i dialetti, restiamo quello che siamo: esseri umani. E da lì bisogna ripartire.
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